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Un farmaco contro l'ipertrofia prostatica potrebbe frenare il Parkinson

Neurologia Redazione DottNet | 16/09/2019 19:54

Ostacola la neurodegenerazione e la perdita di cellule nervose: potrebbe addirittura prevenire la malattia

Un farmaco in uso per un problema della prostata molto comune (l'ipertrofia prostatica benigna, ovvero l'ingrossamento della ghiandola prostatica) potrebbe rallentare il decorso del morbo di Parkinson, ostacolando la neurodegenerazione e la perdita di cellule nervose: potrebbe addirittura prevenire la malattia.  È la speranza che arriva da un lavoro sul Journal of Clinical Investigation, di scienziati della University of Iowa che stanno allestendo una prima sperimentazione clinica su pazienti con Parkinson con il farmaco (Terazosina), proprio in virtù del fatto che, essendo già in uso, ha già "dalla sua" tantissimi dati di sicurezza. Gli esperti hanno compreso il potenziale della molecola vedendo che ha un'azione su un enzima importantissimo per il benessere delle cellule, 'PGK1', che serve per produrre energia.

Disfunzioni a suo carico sembrano avere un ruolo nei processi neurodegenerativi. Di qui l'idea di testarlo su animali con Parkinson. "Quando abbiamo testato il farmaco su vari modelli animali di malattia, tutti hanno manifestato dei miglioramenti - ha spiegato Lei Liu, uno degli autori. La coordinazione motoria degli animali è migliorata e contemporaneamente anche i segni molecolari della neurodegenerazione". Gli esperti hanno visto che il farmaco preveniva la neurodegenerazione se somministrato prima dell'esordio della malattia; rallentava o fermava del tutto i processi neurodegenerativi se somministrato dopo il loro esordio.Gli esperti hanno infine esaminato un database di pazienti con Parkinson vedendo che chi assumeva Terazosina per la prostata mostrava una prognosi migliore rispetto a coloro che assumevano, un altro farmaco per la prostata con differente meccanismo d'azione.  Il prossimo passo è dunque testare la Terazosina su pazienti con Parkinson per vedere se il farmaco è in grado di migliorare il quadro della malattia e rallentarne il decorso.

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fonte: Journal of Clinical Investigation

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